La presenza del cappello cardinalizio e di una prima versione dei simboli araldici della famiglia Cesarini permette di identificare con buona sicurezza gli affreschi voluti da Alessandro. Troviamo l’Orso legato alla Colonna, sulla quale svetta un’Aquila imperiale ad ali spiegate, la stessa Aquila che molti vorranno leggere nelle forme insolite del Castello.
I temi sono quelli classici dei cicli pittorici destinati ad esaltare il committente e la sua famiglia. Scene mitologiche, rappresentazioni storiche, battaglie, medaglioni di eroi, grottesche. Importante la presenza dei riferimenti alla storia romana, vista attraverso Tito Livio: la guerra tra i sabini (dopo tutto siamo in Sabina) e i romani, l’incendio che distrugge il Tempio di Vesta, la ‘romanità’ dei trofei di armi e dei guerrieri. Va ricordato che i Cesarini pretendevano di discendere in linea diretta da Giulio Cesare, pretesa che dava forza alla loro scelta pro-Carlo V Asburgo.
I fregi non sono omogenei. In alcune sale del piano nobile, i fascioni affrescati si presentano come riquadri narrativi scanditi da cariatidi, trofei d’armi, guerrieri monocromi, inserti di grottesche. In altre i fregi sono continui, e le narrazioni si sviluppano senza soluzioni di continuità. Secondo una procedura stilistica rafforzata dal Manierismo, il fregio non aveva inizio e fine, ed esprimeva in questo modo il tempo illimitato, immortale, del committente e della sua famiglia. Funzione totemica e mitica di negazione della Storia.
Gli affreschi del ciclo legato alla committenza di Giuliano Cesarini sono riconoscibili per la presenza della stemma congiunto Cesarini-Colonna. Giuliano aveva sposato Giulia, la figlia di Prospero Colonna, con nozze fastose, e il loro apparato scenografico era stato progettato appunto da Baldassarre Peruzzi. Ma la differenza non sta solo nello stemma. Il Manierismo romano era già esploso da due decenni, e alcune sue caratteristiche stilistiche sono presenti negli affreschi: i colori ‘acidi’, le figure troncate, gli accostamenti paradossali o incongrui, gli affastellamenti di oggetti e entità su superfici pittoriche ‘piatte’ private di razionalità prospettica, gli ibridi di specie e di genere.
Il tema della metamorfosi culmina nel ciclo di Giuliano. Ovidio diventa il riferimento centrale. Una lettura paziente dei fregi individua numerosi episodi delle Metamorfosi: Narciso alla fonte (III, 435-503), il ratto di Proserpina (V, 385- ), Europa rapita dal toro (VI, 104- ), Bacco scopre Arianna (VIII, 152 – 180), Perseo, Andromeda e il drago (IV, 665-740) e altri ancora. Ma ovunque negli affreschi i riferimenti mitologici e agiografici vengono tradotti in raffigurazioni di ibridi e di figure in transizione, i coacervi di frammenti cercano forme compiute ma ancora non le trovano, le grottesche e gli ornati vi aggiungono i loro capricci ‘mostruosi’. Il cambiamento in corso ma dagli esiti incerti diventa la cifra iconica dominante.
Caos di frammenti e oggetti bizzarri – cose inerti e cose viventi – rappresentato mentre cerca di farsi forme compiute, specie e generi precisi, corpi completi. È l’inizio del De rerum natura, ma anche più semplicemente i primi versi delle Metamorfosi ovidiane. L’insieme degli affreschi della Rocca, e ancora di più il ciclo di Giuliano, sembra la realizzazione del programma di Ovidio: « In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora »: « È mio proposito cantare il mutamento di corpi in altri corpi nuovi ». La rappresentazione estetica (poetica, pittorica) serve a raccontare la nascita di questi corpi nuovi dai « germi discordanti di sostanze non ben armonizzate » [I, 9]. Gli affreschi sono una narrazione che con qualche incertezza si dipana da una stanza all’altra, da un fregio all’altro. Raccontano il passaggio dal caos all’ordine attraverso l’azione illuminata del committente, organizzatore del mondo e demiurgo delle sue forme.
Bisogna resistere alla tentazione di una interpretazione storica e politica. Il sacco di Roma è del 1527. I Cesarini pro-imperiali avevano comprato con 40mila ducati dagli spagnoli la protezione del loro palazzo romano, ma dopo una settimana gli stessi spagnoli avevano comunicato che non potevano fermare il saccheggio dei lanzichenecchi, e i Cesarini erano fuggiti subito dalla città. Gli affreschi esprimerebbero il disordine del presente e la speranza di un ordine ricomposto in figure ricche e in forme forti: il cambiamento catastrofico messo esteticamente sotto controllo e diretto verso un esito strutturato.
Gli affreschi non sono un racconto politico, sono una apologia famigliare. Raccontano come il caos del mondo ritrovi un ordine tramite i Cesarini. Lo stesso racconto che viene dal nuovo Castello, sintesi compiuta e grandiosa di opposti (palazzo/fortezza), cosa (il castello) e animale totemico (aquila? scorpione?), ibrido come storie di ibridi sono le Metamorfosi di Ovidio e degli affreschi. Tra il castello e i suoi affreschi si salda un’alleanza di significati e una convergenza di narrazioni.
Sarebbe utile saperne di più sugli artisti. Purtroppo quasi tutta la catalogazione scientifica rimane da fare. Le attribuzioni sono fantasiose e improbabili: addirittura vengono indicati come autori personaggi morti quando il rifacimento peruzziano era ancora in corso, e il cantiere aperto; oppure, che in quel periodo proprio non potevano stare dalla parti di Rocca Sinibalda: Polidoro da Caravaggio (morto a Messina nel 1543), Perin del Vaga (morto a Roma nel 1547). Altre attribuzioni rimangono ipotesi vaghe: ed es. il cremonese Giulio Campi. C’è chi se la cava con i soliti escamotage: opere di allievi, riproduzioni di cartoni diffusi nell’area in quel periodo ecc. Unica certezza: il ruolo di Girolamo Muziano, purtroppo per alcuni affreschi tra i più deteriorati dal tempo e da restauri volgari.
C’è poi l’imponenza dei fregi che, soprattutto al piano terra, sono stati messi in sicurezza e attendono un costoso recupero. È possibile che dalla loro scopertura emergano elementi nuovi, capaci di facilitare la catalogazione degli affreschi già visibili.
Al di là di queste considerazioni, rimane la bellezza dei fregi quando si percorre il lungo corridoio del palazzo centrale. Stili diversi, mani diverse, registri coloristici diversi, scontati temi classicheggianti e rappresentazioni mitologiche visionarie, emblemi familiari e ibridi inquietanti, figure virili e androgini inattesi, realistici scorci di natura e di paesaggio insieme a mostri, capricci di fantasia e scene cruente, entità zoomorfe e figure fitomorfe, erotismi ambigui e vergini sacrificali: da una stanza all’altra, da un fregio all’altro, accostamenti insoliti, discordanze, stridori, sorprese, il continuo invito ad adattarsi a forme nuove che il fregio precedente non permetteva di prevedere. Dallo Studiolo alla Stanza dello sciamano, dalla Stanza del Criminale alla Stanza del Giardino incantato fino alla Stanza della Musica: un lungo racconto pittorico di cambiamento che invita a dimenticare la stabilità delle forme e a correre il rischi della metamorfosi. Rocca Sinibalda come castello delle metamorfosi.
La Sala Grande settecentesca
Al ‘cannocchiale’ delle metamorfosi si arriva dalla Sala Grande. Le sue pareti sono integralmente coperte da grandi affreschi a tempera settecenteschi, realizzati dal 1730 in poi, durante i lavori di ripristino seguiti all’esplosione della santabarbara nello sperone nord e al successivo incendio.
Le rappresentazioni sono di ingannevole semplicità. Nella parete Nord Est una grande veduta del Castello e del borgo dal fondo Ovest della valle del Turano, il punto di vista che aveva già scelto Paul Bril nel 1601 per una veduta classica ora presso la Galleria Nazionale di Arte Antica (Il feudo di Rocca sinibalda, Palazzo Barberini, Roma). Mentre Bril era stato potente e drammatico, l’affresco del 1730 è elegante e bucolico. Il fondo valle acquitrinoso e malarico era stato forse la più efficace difesa della Rocca nei due falliti tentativi di assedio. Qui diventa un prato gentile, accogliente, che sale dolcemente verso le basi della Rocca. Guardato di lato, il Castello è soprattutto palazzo signorile. Lo sperone e la coda con le loro artiglierie si vedono ma perdono peso. La “villa fortificata” è soprattutto villa, e viene in mente che potrebbe servire per estive “villeggiature”.
Sulle altre pareti vediamo i borghi del feudo: Pantana, Belmonte, Antuni, Posticciola, Vallecupola; ma anche gli stemmi nobiliari e i medaglioni delle mitologie familiari della famiglia proprietaria: il Colosseo, Castel Sant’Angelo.
La Sala Grande sintetizza il feudo circostante. Le sue pareti sono un paesaggio virtuale. Guardandole si vede ciò che in parte si vede effettivamente dai camminamenti – ad es. Belmonte -, e ciò che si sa esserci ma non si vede: Vallecupola, Magnalardo, Posticciola, Pantana. Seduti nella Sala, il Signore, la sua famiglia e i suoi ospiti sono immersi visivamente nel feudo, ne sono avvolti e possono averne una percezione simultanea.
La Sala funziona come un Panopticon. Al centro sta il Signore, e il Castello come concretizzazione del Signore. Ma il Castello è anche una delle pareti. Così il Signore dalla Sala vede sulle mura attraverso le mura il suo mondo intorno a sé. Al tempo stesso specchia se stesso nel Castello che è suo e che lo esprime. Vede, e si specchia. Sperimenta lo stare al centro, ma anche il confine. La macchina visiva della Sala Grande è meno ingenua e ovvia di quanto non possa apparire al visitatore distratto. Come lo specchio dipinto dal Parmigianino a Fontanellato nel soffitto per Paola Gonzaga, essa implica il Respice finem: contempla il tuo limite.
La stanzetta della Rocca di Fontanellato affrescata dal Parmigianino è centrata sul mito di Diana e Atteone, dal Libro III delle Metamorfosi di Ovidio. La Sala Grande si vuole Panopticon e specchio da cui si entra nei cicli delle metamorfosi del ‘cannocchiale’. Analogia probabilmente forzata, ma che è bello e utile non buttar via troppo in fretta.
Le grottesche della Biblioteca
Nel piano nobile, un ‘cannocchiale’ di oltre 80 metri porta dalla Sala Grande alla Coda del Castello. Non si tratta di un semplice apparato architettonico visivo. Le sequenze degli affreschi manieristi della 2a metà del Cinquecento nella parte superiore delle stanze ci dicono che si tratta di un percorso narrativo e simbolico ancora in attesa di una interpretazione soddisfacente.
Le grottesche sono una componente importante di questo percorso. A partire dal 1545 circa, i pittori di scuola manierista che stavano affrescando il Piano nobile si ricollegano allo stile ornamentale che stava riempiendo di leggerezza e di immaginazione apparentemente disordinata le pareti e i soffitti delle grandi dimore italiane. Da tempo non si pensa più che le grottesche del ‘500 fossero solo capriccio e mero ornamento a imitazione delle imagini sulle pareti della Domus Aurea romana. Complessità dei contenuti, varietà delle rappresentazioni all’interno del canone, trasgressione formale e esaltazione intellettualistica, ricchezza delle citazioni colte, agganci alla tradizione ermetica e al geroglifismo da un lato, e dall’altro all’enciclopedismo naturalistico, Wunderkammer visive, esercitazioni liberatorie ai confini della lingua e delle regole del racconto per immagini, collegamenti con le rotture linguistiche e retoriche della letteratura maccheronica e più in generale della sperimentazione narrativa e poetica, e molto altro ancora.
L’Italia centrale è stata un terreno privilegiato di questi esercizi di libertà all’insegna del “dissimulare dicendo”. Lo dimostrano i numerosi esempi di grandi cicli di grottesche intorno a Roma, nel Viterbese, in Toscana, in Umbria, nel sud delle Marche. D’altra parte gli stessi Cesarini avevano coltivato nelle loro dimore sia l’innovazione manierista che la grottesca. Era ovvio che tutto questo confluisse nel loro grande castello all’incrocio del Lazio e dell’Umbria, sulla strategica via Salaria, lungo i percorsi degli artisti itineranti che muovevano in modo disordinato tra Roma e la Toscana con ampie deviazioni sui feudi limitrofi.
Le grottesche di Rocca Sinibalda si concentrano nella Biblioteca e nella Stanza del Criminale, la prima e terza sala del lungo cannocchiale dalla Sala Grande. Ben conservati, i due cicli sono stati restaurati con garbo. Per la loro qualità e ricchezza figurativa, queste grottesche belle e originali competono tranquillamente con altre ben più note dell’Umbria e del Viterbese. La loro forza deriva anche dal loro inserimento nel ciclo narrativo delle metamorfosi espresso lungo il piano nobile. Non sono ‘ornamenti’ isolati e fini a se stessi, ma fraseggi di un discorso visivo intorno al cambiare forma.
Le grottesche della Biblioteca coprono la parte alta delle quattro pareti, a ridosso del soffitto ligneo decorato. Nella Stanza dello Sciamano, non servono da supporto, contrappunto o ornamento visivo per altri cicli pittorici. Esse sono la narrazione visiva prevalente, con la sola eccezione di due riquadri a tema realistico e mitologico. Le separano talamoni, cariatidi e altri elementi architettonici dipinti.
Le grottesche dello Sciamano presentano tutte le figure tipiche della grottesca manierista tardo-rinascimentale: le rappresentazioni a candelabro, i putti che giocano o suonano, le sfingi e altri mostri terioformi femminili, gli uccelli esotici, le rappresentazioni fitomorfe, arbusti eterei, tralicci e vitigni, veli e drappeggi, moncherini di corpi maschili su esili colonne a cono quadrato.
Anche lo stile e la sintassi corrispondono al canone. In ogni grottesca sembrano disporsi a caso oggetti eterogeni e ibridi privi di connessioni sensate. La gravità è quasi assente: corpi improbabili sono sostenuti da supporti impossibili, magari con dei putti che forse aiutano a sorreggere, o forse stanno spingendo a terra. Prevale una leggerezza euforica e colorata, una sensazione di libertà che non deve rendere conto né a un committente né alla realtà, sullo sfondo luminoso dell’intonaco bianco. Scene prive di spiegazione appaiono qua e là: sacrifici di tori su altari classicheggianti, ellissi interne con paesaggi lacustri o figure di uomo e donna (forse i committenti?) o allusioni erotiche, guerrieri improbabili accompagnati da putti leziosi. Ovunque affiora una tonalità divertita o apertamente comica.
L’artista è ignoto. È in corso un primo tentativo di datazione, che dovrebbe aiutare l’identificazione. In ogni caso le grottesche della sala dello Sciamano sono successive alla conclusione del rifacimento del Peruzzi, e si collocano tra il 1540 e il 1570.