Tra lo Stretto di San Juan de Fuca (a nord di Seattle) e il sud dell’Alaska, esistono decine di insediamenti nativi sopravvissuti all’assimilazione brutale organizzata dagli USA e in particolare dal cosiddetto illuminato e tollerante Canada: bambini tolti alle famiglie, confinati e rieducati nelle residential schools, proibizione dei potlatch, sequestro di migliaia di oggetti rituali, tentato sradicamento delle lingue e dei riferimenti religiosi non cristiani ecc.
Solo da qualche decennio, le comunità delle First Nations (la denominazione canadese per le popolazioni indiane e inuit) hanno iniziato il recupero forte, orgoglioso e pubblico della loro identità culturale, e delle forme e oggetti che la esprimevano. L’esplosione di un’arte nativa contemporanea è stata effetto e strumento di questo recupero.
Nel castello vivono varie decine di sculture e oggetti lignei opera di artisti nativi tra i più interessanti delle ultime due generazioni, spesso ma non sempre figli d’arte: Art Thompson, Beau Dick, Ron Telek, Douglas David, Stephen Bruce, Tom Hunt, Merwyn Child, Wayne Alfred ecc.
Sono rappresentati molti degli stili distintivi delle singole Nazioni. Comunità a volte contigue hanno linguaggi plastici assai diversi, che possono variare molto anche all’interno di una stessa Nazione. La collezione permette di apprezzare le differenze più significative. Si possono vedere opere Tlingit, Haida, Tsimishian, Kwakwaka’wakw, Nuu-chah-nulth, Nisga’a, ma anche ibridi complessi in cui si intrecciano influenze paradossali.
Tutte le maschere lignee sono collegate a funzioni rituali o a simbologie mitico-religiose: l’uccello cannibale Hukhuk e la variante usata dalla hamatsa, la più importante delle società segrete Kwakwaka’wakw, per la sua danza iniziatica; la Dzunuḵ̓wa, o Tsonokwa, ovvero la Wild Woman; il Bakwas’, ovvero il Wild Man of the woods; le maschere della possessione sciamanica; le maschere comiche usate per deridere o far ridere durante le rappresentazioni rituali; Ganada, il Raven trickster che tutto governa e trasforma.
Ognuno degli oggetti della collezione è una storia condensata, soggetto e personaggio di narrazioni molteplici in cui si intrecciano mitologie della Nazione e della comunità, vicende claniche, varianti familiari e, più raramente, apparizioni di eroi individuali. L’esperienza del contatto con un carver non si dimentica: vuole vendere, ma vuole anche e forse soprattutto raccontare, e può farlo per ore, sotto la pioggia e al freddo, con quella scultura come pretesto: ci è capitato ad Alert Bay, in un capannone, con Beau Dick; e poi con Stephen Bruce, e con Wayne Alfred ecc ecc.
Il totem è una forma atipica di oggetto rituale, un monumento che si presenta quasi sempre come narrazione verticale, e spesso come sequenza di trasformazioni: per es. l’orso diventa orca, che diventa Dzunuḵ̓wa, che diventa Raven, che diventa Eroe/Capo, che diventa i Copper (simbolo del potere). Il castello ospita due totem di rara bellezza. Il primo, 3 metri di un tronco di cedro rosso, un capolavoro di Art Thompson finito poco prima della sua morte, racconta le metamorfosi che portano alla nascita di Pook’ubs, l’essere umano sospeso tra i vivi e i morti, tra il regno animale e quello sociale, con la bocca protesa nell’atto del narrare. Il secondo, di Stephen Bruce, è un totem di benvenuto: un unico tronco di 8m di cedro rosso per abbracciare nella socialità tramite la Dzunuḵ̓wa e l’Eroe/Capo; esposto nella mostra congiunta U’mista e Staatliche Kunstsammlungen di Dresda, The Power of Giving.
Reinventare la tradizione è un’impresa complicata. Tutti gli artisti ‘nativi’ di rilievo sotttolineano nelle loro biografie quanto essi siano ancora e sempre radicati nelle loro comunità. Gli oggetti che producono vengono presentati in qualche modo come una emanazione dello spirito e della identità della loro Nazione. Ovviamente non è così. L’osservatore attento coglie nella collezione del castello la difficile dinamica tra il canone e l’opera, tra il canovaccio formale pre-scritto e la realizzazione individuale. Ma coglie anche di più un’altra realtà: gli artisti della Northwest Coast pretendono di produrre i loro oggetti in nome e per conto della loro comunità, ma in realtà vendono nelle città, dove peraltro spesso un po’ di nascosto vivono: Vancouver, Victoria. Come già era accaduto per i totem nell’Ottocento, la tradizione viene reinventata ad uso dello straniero, come messa in scena della tradizione. L’oggetto è impuro, e dunque ricco.
La collezione di oggetti è accompagnata da migliaia di immagini di totem antichi e contemporanei raccolte direttamente in oltre 20 anni di percorsi lungo tutto il Nord Ovest USA e canadese, spesso in luoghi difficili da raggiungere. Questo archivio è consultabile sui terminali presenti nel castello. Esso consente di vedere l’atteggiamento delle comunità verso la storia naturale dei totem (il loro invecchiamento), la diversità degli stili, l’emergere di nuove modalità e funzioni, l’impatto della modernizzazione e della domanda dei mercati, il senso diverso e talvolta la perdita di senso di una reinvenzione della tradizione scollata dalla realtà delle First Nations.
In contrappunto una raccolta di oggetti rituali del Sud Ovest (Arizona, Nevada, Utah ecc) sottolinea la forte originalità delle forme artistiche prodotte 5mila km più a Nord.
Le maschere della collezione Padiglione
Il Castello ospita la collezione Vincenzo Padiglione, antropologo e curatore di molti musei etnografici del Lazio. La collezione comprende un’importante raccolta di oltre 500 maschere, esotiche e occidentali, souvenir e rituali, ludiche e di lavoro, tradizionali e contemporanee.
Sono maschere a volte semplici, a volte umili, altre volte di notevole complessità, spesso effettivamente indossate da qualcuno da qualche parte, molto spesso sorprendenti per freschezza e bellezza. Maschere da strada, vive e vissute.
La raccolta è il frutto di due decenni di estese ricerche etnografiche: dalle classiche ricerche sul campo all’arte turistica, dalle botteghe degli artigiani ai mercatini delle pulci, dalle case dei collezionisti alle stuoie appoggiate per terra in strada.
Il suo primo filo conduttore è il fantastico. Viste insieme, queste maschere sono un viaggio nel caos. Propongono un mondo parallelo fatto da una umanità di ibridi, compositi di animale e di umano, mutazioni antropologiche, chimere. Le loro metamorfosi concrete disegnano l’evoluzione verso nostre possibili forme future, o la regressione verso forme che siamo stati chissà quando chissà dove.
L’altro filo conduttore è l’incontro con la diversità: somatica, fisiognomica, ad un tempo tutta biologica e tutta socioculturale. Queste maschere ci invitano a entrare in contatto con le molte identità possibili che vivono in modo spesso invisibile in noi e intorno a noi.
È comodo e rassicurante pensare le maschere come cose da carnevale o da teatro, cose di superficie.
Questa collezione ci costringe a riconoscerle come nuclei cangianti della nostra identità. Per questo ha scelto di trovare casa, o forse rifugio e protezione, a Rocca Sinibalda, nel castello delle metamorfosi.
Al centro della Sala Grande e della razionalità del suo panopticon, in cerchio, stanno tre potenti figure di donna: Vulcania, Amazona e Angela. Le loro forme primitive sono un coacervo di materiali diversi. Ruggine, frammenti di macchine, lame taglienti, catene, plastica, fili di ferro, corde e molto altro inorganico abitano corpi imponenti carichi di sensualità e di erotismo esplicito, di desideri e di divieti. Tre Parche, un Regno delle Madri negativo che esprime al centro del castello la sua anima oscura, fatta di inconscio e di immaginario. Un cuore di tenebra intimo commenta, traduce e rende visibile l’Antirinascimento della Rocca, il suo lato oscuro, l’animale selvaggio contenuto nella sua identità zoomorfa. Guardandole, scompare la geometricità delle forme architettoniche, la razionale funzionalità della ‘machina’ militare.
Il loro autore è Marcos Cei, uno scultore italo-argentino che vive in questo momento a Parigi, e sogna di rifugiarsi in Portogallo, a lungo collaboratore di una galleria di Rue Callot, ora bouquiniste a tempi alterni. Lui stesso ha portato fino a Rocca Sinibalda le tre ‘demoiselles’ e le ha collocate dove sono ora. Altre le seguiranno.